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Storia e Teoria Muntain Bike

BREVE STORIA DELLA MOUNTAIN BIKE Le prime biciclette adatte alla montagna nascono in California negli Stati Uniti verso la fine degli anni 70 (20° secolo). Si trattava di biciclette robuste adatte a sopportare il fuori strada delle escursioni. Negli anni 80 Gary Fisher e Joe Breeze, a seguito di studi e prove pratiche, progettano un tipo di telaio e di cambio particolarmente adatti per un bicicletta da montagna. La mountain bike: MTB, si diffonde rapidamente negli Stati Uniti, più tardi, negli anni 80 anche in Europa e in Italia. Inizialmente nel nostro Paese la MTB è vista con diffidenza. Grande merito alla sua diffusione deve essere attribuito alla ditta Cinelli che lancia sul mercato un primo modello di MTB denominato Rampichino. Alcuni alpinisti col Rampichino raggiungono la cima del Monte Bianco, smontando la bicicletta e portandola a spalla nei tratti più impegnativi della salita. Dal 1985 la produzione di MTB ha un notevole sviluppo fino a raggiungere i 2/3 della produzione nazionale di biciclette. Attualmente la mountain bike viene prodotta in diverse versioni per i vari tipi di gare e per escursionismo. Queste ultime con molleggio regolabile alla sola forcella anteriore, con doppio molleggio, con freni a disco e servofreno. MOTIVAZIONI Fra le nuove specialità della montagna (canoa, parapendio, eccetera..) quella della MTB è la più semplice e la più facilmente accessibile. Per l’escursionista è un modo diverso di andare sui monti che consente, percorrendo piste sterrate, taglia fuoco e sentieri agevoli, di visitare ambienti alpini che non sono mete abituali e logiche di gite a piedi. Le motivazioni di fondo dell’approccio alla montagna sono le stesse dell’escursionismo. In più c’è la soddisfazione di portare a termine un determinato percorso con la propria forza fisica trasmessa alla bicicletta. Nasce, anzi è già nata, una nuova figura di frequentatore della montagna, quella del ciclo-escursionista. TEORIA E REALTÀ DELLA MTB, LIMITI D’IMPIEGO Riviste del settore pubblicano fotografie di alpinisti che si inerpicano in MTB su rocce scoscese, che guadano torrenti impetuosi saltando con la bici da un masso all’altro o che pedalano su ghiacciai sconvolti da seracchi con tanto di piccozza, ramponi e corda in bella vista sul sacco da montagna. Queste non sono altro che esagerazioni pubblicitarie: la realtà è ben diversa. Con la MTB sono percorribili strade sterrate, piste taglia fuoco e sentieri a fondo omogeneo e fino ad una certa pendenza oltre la quale, per quanto forte possa essere il pedalatore, la bici si impianta, la ruota posteriore slitta sul terreno obbligando il ciclo-escursionista a scendere per continuare la salita a piedi. Inoltre, anche quando una salita è pedalabile, può risultare meno faticoso procedere a piedi. Anche i corridori ciclisti che partecipano a gare di MTB quando il percorso si impenna o si fa difficile procedono a piedi spingendo la bici a mano o portandola a spalla. Analoghe limitazioni si incontrano nelle discese ripide: i freni della MTB sono è vero molto potenti e bloccano le ruote, ma queste possono slittare sul terreno creando problemi per l’arresto del veicolo. Anche in questo caso il buonsenso consiglia di continuare a piedi governando la bicicletta a mano. Certe forme estreme di ciclo-escursionismo che portano a raggiungere una meta a qualsiasi costo con la MTB non trovano una logica giustificazione. Fin dove il terreno lo consente può essere utile andare in bici, oltre conviene andare a piedi senza il fardello della MTB che, per bene che vada, i suoi 10 kg li pesa sempre. Affrontare serie difficoltà di percorso in bicicletta non ha senso perché ci si espone ai rischi di cadute, rischi che sono inesistenti se le stesse vengono affrontate a piedi. Come si vede gli itinerari fattibili sulle nostre montagne non sono molti e devono avere ben precise caratteristiche che potremmo chiamare di ciclabilità. . SCELTA DELLA BICICLETTA Nei super mercati o nei grandi magazzini è facile trovare MTB a prezzi relativamente bassi. L’aspetto esterno di queste bici è eguale a quello delle bici ben più costose esposte nei negozi artigianali del settore. La differenza sta nella qualità dei materiali. Le MTB del super sono appena sufficienti per l’uso cittadino o su sterrate pianeggianti, del tutto inadeguate per l’uso in montagna. Nel settore delle biciclette da montagna e da corsa, esistono fabbriche specializzate nella produzione in serie di telai, cerchioni, raggi, freni, cambi, manubri, eccetera. Le aziende che producono biciclette non fanno altro che assemblare la componentistica esistente sul mercato e applicare sul telaio il proprio marchio. Per cui una bicicletta marchiata “Tizio” risulta perfettamente eguale, in tutte le sue parti, ad un’altra marchiata “Caio” oppure “Sempronio”. A questo punto tanto vale farsi costruire una bicicletta su misura da un’officina artigiana che utilizza la stessa componentistica delle grandi aziende, scegliendo personalmente i pezzi più appropriati per le proprie esigenze e per le proprie tasche. Se si compera una bicicletta già fatta occorre verificare che sia della misura giusta per la propria altezza. La misura di una bicicletta è la lunghezza del tubo del telaio sul quale si innesta la sella. Per le MTB questa misura è espressa in pollici. Di seguito la misura della bicicletta in relazione alla propria altezza: altezza persona fino a 1.70 misura telaio 17 pollici o meno da 1.70 a 1.80 misura telaio 18 – 19 pollici da 1.80 a 1.90 misura telaio 20 – 21 pollici oltre 1.90 misura telaio 22-23 pollici . CORONE, PIGNONI E SVILUPPO PEDALATA Le MTB hanno anteriormente una tripla corona, denominata anche plateau, con le seguenti combinazione di denti: 44-32-22 oppure 48-36-26. Posteriormente il pignone può avere 7, 8 oppure 9 elementi con un numero di denti da 11 a 32 oppure da 11 a 34, una MTB può quindi arrivare fino a 27 velocità. Però la cosa è puramente teorica perché alcune combinazioni corona-pignone hanno lo stesso sviluppo di pedalata. Inoltre, per la buona conservazione della catena, con la corona più grande non conviene usare i due pignoni più grandi, con la corona di mezzo e preferibile evitare i due pignoni più piccoli e più grandi. Mentre con

Storia e Tecnica Generale

Il sistema di trasmissione Passiamo adesso ad esaminare in dettaglio il sistema di trasmissione che caratterizza tutti i tipi di bicicletta muniti di cambio e deragliatore. Il sistema si compone di: una serie di 2 o 3 ingranaggi anteriori (detti anche corone) direttamente collegati tramite le pedivelle ai pedali; un pacchetto di ingranaggi (pignoni) solidali con la ruota posteriore; la catena che trasmette il moto dagli ingranaggi anteriori a quelli posteriori; il deragliatore anteriore che consente lo spostamento della catena da una corona all’altra; il cambio posteriore che permette di spostare la catena da un pignone all’altro. Grazie a questo semplice ma al tempo stesso complesso sistema, il ciclista è in grado di utilizzare al meglio la propria forza in relazione alla pendenza del terreno e al tipo di andatura che intende tenere. Allineamento della catena La regola fondamentale per garantire lunga vita ad ingranaggi e catena è questa: la corona esterna (più grande) non deve mai essere accoppiata ai pignoni più interni (più grandi), la corona interna (più piccola) non deve mai essere accoppiata ai pignoni esterni (più piccoli). Quindi: corona grande con pignoni piccoli, corona piccola con pignoni grandi. Ne consegue che in condizioni normali useremo la corona media (centrale) abbinandola ad uno qualsiasi dei pignoni posteriori. Così facendo assicureremo alla catena un buon allineamento tra corone e pignoni. Useremo la corona piccola (più interna) abbinata ad uno dei pignoni più grandi (interni) per le salite più ripide e la corona grande (più esterna) abbinata ad uno dei pignoni più piccoli (esterni) per fare della velocità, sempre che gambe e fiato lo consentano. Come cambiare Anche se la nostra bici monta un ottimo cambio, capace di garantire la massima precisione ed efficienza, è buona norma evitare di cambiare sotto sforzo. Anche se è vero che solitamente capita di dover ricorrere al cambio proprio quando stiamo spingendo con forza sui pedali, nel bel mezzo di una salita, dobbiamo imparare ad impostare la manovra alleggerendo la pressione sui pedali per il tempo necessario ad effettuare il passaggio completo della catena da un pignone all’altro o da una corona all’altra. Questo semplice accorgimento consente di scongiurare il pericolo di rottura della catena o del cambio e di farci meglio apprezzare la scorrevolezza dei vari meccanismi.

Evoluzione della Bicicletta

Le tappe principali dell’evoluzione della bicicletta: Il grande Leonardo da Vinci (o forse un suo allievo) nel Codice Atlantico risalente al 1490 avrebbe disegnato uno schizzo di veicolo molto simile alla bicicletta: due ruote, un’asse di legno, un manubrio e una catena che collega i pedali alla ruota posteriore. Un disegno eccezionale, che avrebbe anticipato i tempi ma che purtroppo è rimasto segreto per oltre 500 anni e la cui autenticità non sarebbe mai stata provata. Nel foglio 133v del Codice Atlantico di Leonardo (circa 1490) si trova lo schizzo di un veicolo molto simile alla bicicletta.. Un disegno eccezionale per quel tempo, ma la cui paternita’ non èstata provata e fa ancora discutere gli studiosi. Ma se non è di mano del grande inventore chi ne è autore? Fu forse un allievo di bottega a disegnare sul retro di un foglio del maestro un veicolo a due ruote, con pedali e trasmissione a catena? O è di un falsario più vicino ai giorni nostri la mano che disegnò la presunta “bicicletta di Leonardo”. Il caso del disegno ritrovato scoppiò negli anni ’70, al termine del restauro del Codice Atlantico, e ancora oggi gli esperti non hanno raggiunto un accordo sulla datazione dello schizzo e sulla sua autenticita’, ma a noi piace pensare che la prima idea di bicicletta sia stata del grande scienziato italiano . L’invenzione del Celerifero 1791: Il celerifero e il conte Mede De Sivrac In un tardo pomeriggio del giugno 1791, in piena Rivoluzione Francese, il Conte De Sivrac si presento’ nei giardini del Palais Royale di Parigi esibendo una sua invenzione: due ruote da carrozza unite da un travetto di legno, su cui si muoveva puntando i piedi per terra e dandosi la spinta, più o meno come si fa oggi con il monopattino. Lo strano mezzo, battezzato subito Cheval de bois (cavallo di legno) suscito’ interesse fra i parigini ma si diffuse più come curiosità che come effettivo mezzo di trasporto essendo faticoso da spingere, ma soprattutto ingovernabile perché privo di un qualsiasi sistema di sterzo e quindi di guida. Nel giro di pochi anni, non avendolo De Sivrac brevettato, fu copiato da molti costruttori che lo trasformarono e abbellirono sostituendo i rudimentali pezzi di legno con forme raffiguranti animali (serpente, coccodrillo, cane, leone, cavallo etc.). Gli fu trovato anche un nome più serio: dapprima celerifero (dal latino celer=veloce e fero=porto) e poi, finita la Rivoluzione, anche velocifero. L’invenzione dello sterzo 1816: La Draisina e il barone Karl Von Drais La prima fondamentale innovazione apportata al celerifero la si deve, con disappunto dei Francesi, ad un tedesco, il barone Karl Von Drais che mise a punto in Baviera un esemplare perfezionato, cioè dotato di sterzo e supportato da un “appoggia-pancia” per agevolare la spinta del corridore. Il nuovo veicolo, il primo vero antenato della bicicletta moderna, era libero finalmente di curvare grazie alla ruota anteriore mobile. Il successo fu immediato anche fuori della Germania : il suo inventore, dopo averlo brevettato il 5 gennaio 1817 a Baden, presentò il nuovo mezzo prima a Parigi dove venne denominato Draisienne dai Francesi e poi a Londra dove fu chiamato Hobby horse (cavallo da divertimento) e dove vi furono apportate corpose e sostanziali modifiche. Fu costruito tutto in ferro (cavallo d’acciaio), fu reso elegante con il montaggio del sellino di pelle, il contachilometri sul manubrio, il parafango sulla ruota posteriore, il riposagomiti e ne fu fatta anche una versione al femminile con telaio abbassato. Fu esportato con successo anche in America del Nord e nel Belgio. In Italia il nuovo veicolo fece la sua apparizione a Milano nel 1819 e chiamata Draisina. Ne è testimonianza un bando della Direzione Generale di Polizia di Milano, datato 8 settembre 1819 “Avendo così dimostrato che il correre dei così detti velocipedi può riuscire pericoloso ai passeggeri, la Direzione Generale suddetta ordina: è proibito di girare nottetempo sui velocipedi per le contrade e per le piazze interne della città. E’ tollerato, però, il corso dei medesimi sui bastioni e nelle piazze lontane dall’abitato. I contravventori saranno puniti con la confisca della macchina.” Di modelli di draisina, detta anche velocipede, nel corso del secolo ne appariranno tantissimi, sempre con nuovi e diversi perfezionamenti. La draisina fu anche soprannominata boneshaker, o “scuotiossa” perché l’impatto delle ruote di legno contro il fondo stradale produceva fastidiose vibrazioni al guidatore. L’invenzione delle pedivelle 1840: Draisina a leve spinta in equilibrio Il primo modello azionato senza toccare terra con i piedi (Draisina a leve spinta in equilibrio) fu creato nel 1840 da un fabbro scozzese di Glasgow, tale Kirkpatrick MacMillian, conosciuto con il nome di “Diavolo”. Il suo veicolo presentava una ruota posteriore più alta di quella anteriore; su di essa stava la sella su cui si appollaiava l’uomo, il quale con un sistema di pedivelle oscillanti, sistemate dalle due parti della ruota anteriore, imprimeva un movimento alla ruota posteriore per mezzo di due bielle leggere. L’inconveniente della sua invenzione che non ebbe successo dipendeva dal fatto che i pedali non ruotavano completamente, ma descrivevano soltanto un arco di cerchio. L’invenzione dei pedali 1861: Il velocipede a pedali: la Michaudina Il giovane francese Ernest Michaux che lavorava nell’officina meccanica del padre, montò su una draisina i primi pedali sulla ruota anteriore, facendo in modo che le pedivelle ruotassero completamente intorno all’asse della ruota e le trasmettessero direttamente il loro movimento Visto il notevole successo l’officina Michaux lavorò dapprima a modificare le draisine in circolazione e poi a produrre dei propri modelli, completamente in legno, che conquistarono subito i nobili parigini fra cui anche il figlio di Napoleone III .Su uno di questi , commissionato dal principe, venne applicata per la prima volta una paletta di ferro, che, azionata da una cordicella, faceva attrito, rallentando lo slancio della ruota posteriore Era nato il primo rudimentale freno. La draisina a pedali fu anche soprannominata boneshaker, o “scuotiossa” perché l’impatto delle ruote di legno contro il fondo stradale produceva fastidiose vibrazioni al guidatore. Nel 1865 il laboratorio Michaux produceva

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