Le tappe principali dell’evoluzione della bicicletta: Il grande Leonardo da Vinci (o forse un suo allievo) nel Codice Atlantico risalente al 1490 avrebbe disegnato uno schizzo di veicolo molto simile alla bicicletta: due ruote, un’asse di legno, un manubrio e una catena che collega i pedali alla ruota posteriore. Un disegno eccezionale, che avrebbe anticipato i tempi ma che purtroppo è rimasto segreto per oltre 500 anni e la cui autenticità non sarebbe mai stata provata. Nel foglio 133v del Codice Atlantico di Leonardo (circa 1490) si trova lo schizzo di un veicolo molto simile alla bicicletta.. Un disegno eccezionale per quel tempo, ma la cui paternita’ non èstata provata e fa ancora discutere gli studiosi. Ma se non è di mano del grande inventore chi ne è autore?
Fu forse un allievo di bottega a disegnare sul retro di un foglio del maestro un veicolo a due ruote, con pedali e trasmissione a catena? O è di un falsario più vicino ai giorni nostri la mano che disegnò la presunta “bicicletta di Leonardo”. Il caso del disegno ritrovato scoppiò negli anni ’70, al termine del restauro del Codice Atlantico, e ancora oggi gli esperti non hanno raggiunto un accordo sulla datazione dello schizzo e sulla sua autenticita’, ma a noi piace pensare che la prima idea di bicicletta sia stata del grande scienziato italiano . L’invenzione del Celerifero 1791: Il celerifero e il conte Mede De Sivrac In un tardo pomeriggio del giugno 1791, in piena Rivoluzione Francese, il Conte De Sivrac si presento’ nei giardini del Palais Royale di Parigi esibendo una sua invenzione: due ruote da carrozza unite da un travetto di legno, su cui si muoveva puntando i piedi per terra e dandosi la spinta, più o meno come si fa oggi con il monopattino. Lo strano mezzo, battezzato subito Cheval de bois (cavallo di legno) suscito’ interesse fra i parigini ma si diffuse più come curiosità che come effettivo mezzo di trasporto essendo faticoso da spingere, ma soprattutto ingovernabile perché privo di un qualsiasi sistema di sterzo e quindi di guida. Nel giro di pochi anni, non avendolo De Sivrac brevettato, fu copiato da molti costruttori che lo trasformarono e abbellirono sostituendo i rudimentali pezzi di legno con forme raffiguranti animali (serpente, coccodrillo, cane, leone, cavallo etc.).
Gli fu trovato anche un nome più serio: dapprima celerifero (dal latino celer=veloce e fero=porto) e poi, finita la Rivoluzione, anche velocifero. L’invenzione dello sterzo 1816: La Draisina e il barone Karl Von Drais La prima fondamentale innovazione apportata al celerifero la si deve, con disappunto dei Francesi, ad un tedesco, il barone Karl Von Drais che mise a punto in Baviera un esemplare perfezionato, cioè dotato di sterzo e supportato da un “appoggia-pancia” per agevolare la spinta del corridore. Il nuovo veicolo, il primo vero antenato della bicicletta moderna, era libero finalmente di curvare grazie alla ruota anteriore mobile. Il successo fu immediato anche fuori della Germania : il suo inventore, dopo averlo brevettato il 5 gennaio 1817 a Baden, presentò il nuovo mezzo prima a Parigi dove venne denominato Draisienne dai Francesi e poi a Londra dove fu chiamato Hobby horse (cavallo da divertimento) e dove vi furono apportate corpose e sostanziali modifiche. Fu costruito tutto in ferro (cavallo d’acciaio), fu reso elegante con il montaggio del sellino di pelle, il contachilometri sul manubrio, il parafango sulla ruota posteriore, il riposagomiti e ne fu fatta anche una versione al femminile con telaio abbassato.
Fu esportato con successo anche in America del Nord e nel Belgio. In Italia il nuovo veicolo fece la sua apparizione a Milano nel 1819 e chiamata Draisina. Ne è testimonianza un bando della Direzione Generale di Polizia di Milano, datato 8 settembre 1819 “Avendo così dimostrato che il correre dei così detti velocipedi può riuscire pericoloso ai passeggeri, la Direzione Generale suddetta ordina: è proibito di girare nottetempo sui velocipedi per le contrade e per le piazze interne della città. E’ tollerato, però, il corso dei medesimi sui bastioni e nelle piazze lontane dall’abitato. I contravventori saranno puniti con la confisca della macchina.” Di modelli di draisina, detta anche velocipede, nel corso del secolo ne appariranno tantissimi, sempre con nuovi e diversi perfezionamenti. La draisina fu anche soprannominata boneshaker, o “scuotiossa” perché l’impatto delle ruote di legno contro il fondo stradale produceva fastidiose vibrazioni al guidatore. L’invenzione delle pedivelle 1840: Draisina a leve spinta in equilibrio Il primo modello azionato senza toccare terra con i piedi (Draisina a leve spinta in equilibrio) fu creato nel 1840 da un fabbro scozzese di Glasgow, tale Kirkpatrick MacMillian, conosciuto con il nome di “Diavolo”.
Il suo veicolo presentava una ruota posteriore più alta di quella anteriore; su di essa stava la sella su cui si appollaiava l’uomo, il quale con un sistema di pedivelle oscillanti, sistemate dalle due parti della ruota anteriore, imprimeva un movimento alla ruota posteriore per mezzo di due bielle leggere. L’inconveniente della sua invenzione che non ebbe successo dipendeva dal fatto che i pedali non ruotavano completamente, ma descrivevano soltanto un arco di cerchio. L’invenzione dei pedali 1861: Il velocipede a pedali: la Michaudina Il giovane francese Ernest Michaux che lavorava nell’officina meccanica del padre, montò su una draisina i primi pedali sulla ruota anteriore, facendo in modo che le pedivelle ruotassero completamente intorno all’asse della ruota e le trasmettessero direttamente il loro movimento Visto il notevole successo l’officina Michaux lavorò dapprima a modificare le draisine in circolazione e poi a produrre dei propri modelli, completamente in legno, che conquistarono subito i nobili parigini fra cui anche il figlio di Napoleone III .Su uno di questi , commissionato dal principe, venne applicata per la prima volta una paletta di ferro, che, azionata da una cordicella, faceva attrito, rallentando lo slancio della ruota posteriore Era nato il primo rudimentale freno.
La draisina a pedali fu anche soprannominata boneshaker, o “scuotiossa” perché l’impatto delle ruote di legno contro il fondo stradale produceva fastidiose vibrazioni al guidatore. Nel 1865 il laboratorio Michaux produceva 400 velocipedi all’anno, nel 1869 ne produceva 200 al giorno grazie anche al successo ottenuto dai bicicli di loro produzione esposti alla prima esposizione internazionale di velocipedi tenutasi in quell’anno a Parigi. Per cercare di rendere più rapido il velocipede i costruttori aumentarono le dimensioni della ruota anteriore in modo da coprire una distanza maggiore ad ogni giro di pedali. Era nato il Biciclo (da velocipede bicycle) caratterizzato appunto dalla ruota anteriore molto alta -di solito tra i 90 e i 150 cm di diametro-, dalla ruota posteriore molto piccola che serviva solo a equilibrare l’insieme, dal telaio e ruote ancora in legno e dai cerchioni in ferro. In alcuni casi la ruota anteriore raggiunse anche i due metri di diametro con il guidatore seduto ad un’altezza vertiginosa. La guida di questo veicolo era così complessa e difficile oltre che pericolosa da giustificare la nascita delle prime scuole guida. I bicicli Michaux erano pero’ ingombranti, rigidi e soprattutto pesanti tanto da non permettere velocita’ superiori ai 12 chilometri l’ora.
Ma l’evoluzione verso un biciclo piu’leggero e quindi piu’ veloce fu rapida in tutta Europa e ben presto al legno fu sostituito il ferro. Nel 1868 Il meccanico tedesco E. Meyer che abitava a Parigi ricorse per primo all’impiego di tubi in ferro per costruire i telai e si servì di cerchi cavi per permettere il fissaggio delle gomme piene. Poco dopo Jean Suriray di Melun inserì cuscinetti a sfere (brevettati nel 1861 negli Stati Uniti) nei mozzi delle ruote e nei pedali e costruì la prima sella in cuoio. . Nel novembre del 1869 si svolse a Parigi la prima Esposizione del velocipede che vide la partecipazione di 19 costruttori. Il biciclo 1868 : La nascita del biciclo Per cercare di rendere più rapido il velocipede i costruttori aumentarono le dimensioni della ruota anteriore in modo da coprire una distanza maggiore ad ogni giro di pedali. Era nato il Biciclo (da velocipede bicycle) caratterizzato appunto dalla ruota anteriore molto alta -di solito tra i 90 e i 150 cm di diametro-, dalla ruota posteriore molto piccola che serviva solo a equilibrare l’insieme, dal telaio e ruote ancora in legno e dai cerchioni in ferro. In alcuni casi la ruota anteriore raggiunse anche i due metri di diametro con il guidatore seduto ad un’altezza vertiginosa.
La guida di questo veicolo era così complessa e difficile oltre che pericolosa da giustificare la nascita delle prime scuole guida.I bicicli Michaux erano pero’ ingombranti, rigidi e soprattutto pesanti tanto da non permettere velocita’ superiori ai 12 chilometri l’ora. Ma l’evoluzione verso un biciclo piu’leggero e quindi piu’ veloce fu rapida in tutta Europa e ben presto al legno fu sostituito il ferro. Nel 1868 Il meccanico tedesco E. Meyer che abitava a Parigi ricorse per primo all’impiego di tubi in ferro per costruire i telai e si servì di cerchi cavi per permettere il fissaggio delle gomme piene. Poco dopo Jean Suriray di Melun inserì cuscinetti a sfere (brevettati nel 1861 negli Stati Uniti) nei mozzi delle ruote e nei pedali e costruì la prima sella in cuoio. L’evoluzione tecnica del Biciclo 1868-1880 L’evoluzione tecnica del biciclo continuo’e vide inventori di diverse nazionalità, francesi, inglesi, tedeschi alternarsi nell’apportarvi sempre nuovi miglioramenti e modifiche sostanziali. Nel 1871 l’inglese James Starley e William Hillman di Coventry presentarono’una loro versione di High Bicycle (bicicletta alta), il famoso modello Ariel o anche Ordinary, munito di una ruota anteriore di grande diametro (circa un metro e mezzo) e di una posteriore piccolissima, tutto costruito con tubi di metallo, quindi di peso limitato e che offriva la possibilita’ di regolare la tensione dei raggi delle ruote. Per promuovere il proprio veicolo Starley e Hillman percorsero la distanza fra Coventry e Londra di 153 chilometri in un giorno solo, attirando l’attenzione della stampa del tempo. Surclassati rapidamente i velocipedi Michaux, che in Inghilterra erano stati scherzosamente soprannominati boneshakers (letteralmente scuotiossa) l’Ariel e i modelli derivati, costruiti un po’ in tutta Europa e anche in America dominarono il mercato per i successivi vent’anni.
Attorno al 1881, nel modello da corsa l’Ariel, raggiunse quasi la perfezione arrivando a pesare soltanto 10 o 11 chilogrammi In Francia fu presentato Le Gran Bi, in Germania l’Hochrad, in Inghillterra e negli Stati Uniti l’Ordinary, il modello piu’venduto negli anni settanta dell’Ottocento. A partire dal 1868 fu costruito con successo anche il triciclo a pedali con trasmissione nella ruota anteriore (e in seguito nella ruota posteriore) per soddisfare i clienti meno atletici soprattutto persone anziane e signore perché garantiva un equilibrio piu’stabile e sicuro. A questo punto le sperimentazioni si volsero a cercare soluzioni che consentissero la trasmissione del moto tramite un sistema di cinghie elastiche e ingranaggi sulla ruota posteriore. La trasmissione a catena 1868 Diversi modelli di catena furono disegnati gia’ dal grande Leonardo da Vinci nel 1482 nel famoso Codice Atlantico e poi utilizzati alla fine del ‘700 in diversi settori della meccanica, ma il primo ad applicare la catena ad un veicolo a due ruote fu nel 1868 l’orologiaio parigino A. Guilmet. Egli fece costruire dal meccanico tedesco E. Meyer un velocipede con trasmissione a catena sulla ruota posteriore, probabilmente copiando e ingrandendo un modello di catena e ingranaggio già esistente negli orologi che egli manipolava ogni giorno. Ma la sua invenzione non ebbe subito fortuna perché i fabbricanti, ormai attrezzati per la costruzione del biciclo che era in gran voga, ritennero non conveniente dotarsi di nuove attrezzature atte alla costruzione del nuovo modello di velocipede. Otto anni dopo, Meyer la ripresentò come sua chiamando il nuovo veicolo “La bicyclette Meyer”.
Il bicicletto disegnato da Guilmet e costruito da Meyer aveva la forma del telaio e la sospensione elastica della sella perfettamente uguali ai telai e alle sospensioni delle selle esistenti sui bicicli che venivano costruiti in Francia in quel periodo di tempo.Nel frattempo (fra il 1876 e il 1884) lavoravano alla stessa idea i francesi Vincent e Sargent, l’americano Shergold e l’inglese Lawson che presentarono vari modelli con trasmissione a catena sulla ruota posteriore che in alcuni si presenta di diametro più grande e in altri più piccola. Ricordiamo fra tutti l’inglese Harry John Lawson di Coventry che nel 1879 brevetto’ un biciclo con trasmissione a catena e ruote di piccola dimensione che aumentavano la sicurezza senza sacrificarne la velocita’. Lo chiamo’ “bicyclette”. Il modello non ebbe successo ma diede l’avvio ad un nuovo capitolo nel design dei bicicli. Anche un artigiano italiano, Costantino Vianzone di Torino presento’ nel 1884 un modello di velocipede con catena, con telaio e forca in legno duro mentre le uniche parti metalliche erano costituite dall’interno dei mozzi, dal pedaliere e dagli ingranaggi di trasmissione della forza motrice tramite la catena. Le due ruote erano di diametro uguale, ma invece di essere cerchiate con gomme piene, come i precedenti modelli, erano rivestite di corda. Nel 1885 un altro italiano, il milanese Edoardo Bianchi, fondatore della Famosa Ditta, realizzava il primo bicicletto con trasmissione a catena: in Italia è un successo straordinario. Quel primo bicicletta, di marca italiana, aveva un telaio in ferro, a forma di croce, e direzione a perno, linea snella ma solida e ruote di diametro uguali., caratteristiche che troveremo poi anche in altri vari modelli inglesi, francesi, tedeschi, apparsi fra il 1885 e 1887.
Prima della fine del secolo, in circa 20 anni di sperimentazione, il problema della trasmissione a catena fu risolto in modo definitivo: i pedali furono collegati ad una corona dentata che, mediante catena snodabile, trasmetteva il movimento al pignone della ruota posteriore. Per coprire una distanza maggiore con un giro di pedali non serve più che la ruota anteriore sia più grande e così si torna alle due ruote di dimensioni uguali. L’evoluzione del telaio 1885-1887 Dal telaio a croce o “trave” al telaio a trapezio o “diamante”. Nei diversi modelli di bicicletti apparsi dal 1885 alla fine del 1887 il telaio era costruito a forma di croce con una direzione a perno: il tubo che dalla sella finisce alla pedaliera incrocia, a meta’strada, il tubo che unisce la ruota posteriore al manubrio. Una forcella per la ruota anteriore conteneva due calotte coniche, una saldata sopra la testa della forcella, l’altra movibile, infilata nella parte superiore del tubo dello sterzo, in cui venivano immesse le punte del perno costituendo cosi’ lo sterzo e completando il telaio. Con questo tipo di telaio il veicolo non aveva quella resistenza e rigidita’ necessaria ad attutire lo sforzo prodotto dai colpi dei pedali e di conseguenza spesso si verificava o l’uscita della catena dagli ingranaggi o la rottura della catena stessa. Allora alcuni costruttori decisero di dare una maggiore stabilita’ al pedaliere rinforzando il telaio con l’applicazione di due bacchette o tiranti sottili di ferro pieno. Nel modello inglese “Singer”del 1885-86, per esempio, osserviamo che una bacchetta collegava il tubo verticale con l’estremita’ del tubo principale e l’altra la pedaliera con il tubo principale. Ma anche con queste ulteriori applicazioni il bicicletto non raggiunse un’adeguata stabilita’ per cui altri costruttori pensarono di eliminare il tubo incrociato che univa la sella con il pedaliere e copiarono il primo modello di telaio a trapezio o “diamante” apparso verso la fine del 1886 all’Esposizione Internazionale del Velocipede di Londra. Tale modello in cui l’originale forma del telaio lasciava intravedere la geometria chiusa a trapezio e che sarebbe arrivato fino ai giorni nostri fu creato nel 1885 dall’inglese John Kemp Starley che lo chiamo’Safety (sicurezza) The Rover” proprio perche’garantiva maggiore stabilita’ e scorrevolezza al mezzo.E comparvero anche i tricicli e i “tandem” che permettevano anche alle signore e agli anziani la possibilita’ di La vulcanizzazione della gomma e le sue prime applicazioni 1839 La gomma era conosciuta e utilizzata nelle industrie gia’ da diversi decenni ma nel 1839 il chimico americano Charles Goodyear scoprì per caso il processo di vulcanizzazione, osservando un miscuglio di lattice e zolfo caduto su una stufa. La sua scoperta consistette nel combinare il lattice allo stato primitivo con lo zolfo per renderlo elastico e consistente, a seconda della fusione piu’o meno prolungata della composizione. Per dieci anni il Goodyear continuo’ la sua sperimentazione sulla elasticita’ della gomma che fu usata all’inizio soprattutto per confezionare apparati medici e chirurgici, e articoli per ospedali. Solo nel 1869 l’americano Bradfort fece il primo tentativo di applicare delle striscie di gomme piene sulle ruote dei velocipedi per attenuare le vibrazioni e i contraccolpi dovute alle strade del tempo. I risultati non furono buoni perche’ la gomma tendeva a sciogliersi d’estate e a creparsi d’inverno cosi’ che si cerco’ di tentare con altri materiali inchiodando o incollando alle ruote striscie di panno, di cuoio o di corda. Alla fine del 1869 la gomma si impose sugli altri materiali soprattutto per merito del costruttore inglese Beck che presento’ un biciclo con gomme piene inchiodate ai cerchioni in legno con delle striscie di tela gommata.
Un anno dopo arrivarono i primi cerchioni in ferro sagomati a forma di U per contenere le striscie di gomma mentre si moltiplicarono per vari anni i tentativi di trovare mescole di gomma sempre piu’ adattabili alle necessita’. Gli esperimenti i piu’conosciuti sono quelli di applicare gomme piu’ dure all’interno e piu’ elastiche all’esterno, gomme durissime con anime spugnose, ma senza grandi risultati. La vera rivoluzione avverra’ solo nel 1888 con l’invenzione di Dunlop. L’invenzione del pneumatico 1888: Dunlop e il primo pneumatico Lo scozzese G.J. Boyd Dunlop, veterinario di professione, per eliminare i contraccolpi delle ruote del triciclo regalato al figlio sperimento’ una sua idea: al posto delle gomme rigide inchiodo’ alle ruote dei tubi di gomma vulcanizzata gonfiati a pressione minima con una siringa di vetro. Nacque così il primo pneumatico. Dunlop, vista la sorprendente scorrevolezza che la sua invenzione procura al veicolo, propose ad una squadra di ciclisti inglesi che si accingevano a partecipare ad una gara, di montare il suo tipo di gomme. Naturalmente la squadra vinse la gara e il nuovo pneumatico riscosse un successo strepitoso e la sua produzione si diffuse ben presto in tutta Europa. Lo stesso Dunlop smise di esercitare la professione di veterinario e apri’ a Dublino la “Dunlop pneumatic Tyre Co. Ltd>” societa’ che raggiungera’ in pochi anni un clamoroso successo. 1891 Michelin e il pneumatico smontabile Trascorsero appena due anni dall’apparizione sul mercato ciclistico dei tubolari Dunlop quando, i fratelli francesi Andrè e Eduard Michelin, produttori locali di articoli in gomma, ebbero l’idea di dividere il pneumatico in due parti: un tubo in caucciù munito di una valvola, inserito in un altro tubo più spesso e resistente, facilmente smontabile dal cerchione: erano nati i primi copertoni smontabili agganciati alla ruota con due fili di acciaio. Per riparare una gomma forata dunque, bastava estrarre la camera d’aria e rappezzarla o sostituirla con una nuova. 1892 Pirelli e il “pneumatico milano” Nel 1892 vede la luce l’ultima modifica che perfeziona il pneumatico. Il merito va all’industriale milanese, Giovan Battista Pirelli, che costruisce il “pneumatico milano” con la cosiddetta copertura a tallone, usata ancor oggi, con cui il copertone e’ trattenuto nelle apposite scanalature del cerchione dalla pressione della camera d’aria.
La Bicicletta 1889 Nasce il termine bicicletta L’irlandese W.Hume, proprietario di una fabbrica di velocipedi, presentò alla “Esposizione Internazionale del Velocipede” a Londra un suo modello con il nome di “ Bicyclette Humatic”. Questo veicolo, il primo a montare gomme pneumatiche, era costruito con telaio a trapezio, senza tubo di congiunzione fra la sella e il pedaliere, con lo sterzo a perno e con le ruote di diametro differente: piccola quella anteriore, molto più grande quella posteriore. Questo per sopperire alla esiguità del diametro dell’ingranaggio (corona) del pedaliere che conteneva solo 20 denti, massima grandezza fabbricata in quell’epoca, e per ottenere una maggiore moltiplicazione di percorso ad ogni giro di pedali. Per ricordare l’invenzione delle gomme Dunlop e per aver ottenuto l’esclusiva di montarle sui sui modelli, il sig. Hume fece omaggio della prima bicicletta “Humatic”al figlio del geniale inventore.
L’anno dopo presentò un secondo modello “Byciclette New Humatic” con telaio a doppi tubi e ruote di diametro uguale che donò a Dunlop padre. L’inventore del pneumatico si diede al velocipedismo compiendo ogni giorno lunghi giri per la città e i dintorni di Belfast. Da quel momento tutte le principali case produttrici che ottennero l’esclusiva di cerchiare le ruote con i pneumatici Dunlop lanciarono i loro modelli con il nome di “Biciclette” ( bicicletta in italiano) : nome che nonostante la rapida evoluzione e i numerosi perfezionamenti meccanici apportati non è stato più cambiato e con cui ancora oggi si intende il veicolo con telaio, due ruote, mozzi, pedali, trasmissione a catena, manubrio, freni e sella. L’industria della bicicletta All’inizio del secolo la bicicletta ha ormai invaso tutta l’Europa e buona parte anche dell’America. Mentre le prime automobili fanno i primi passi, la regina incontrastata delle strade è la bicicletta. In Italia una bicicletta costava l’equivalente di 10 centesimi di euro (le vecchie duecento lire) e si cantava “ma dove vai bellezza in bicicletta”. Le due ruote, quindi, rappresentavano un simbolo di libertà e di affrancamento sociale, ma restavano soprattutto un valido strumento di aggregazione e di socialità. La bicicletta consentiva all’operaio di abitare a dieci o quindici chilometri dalla fabbrica, ed al contadino di raggiungere i campi senza dover bruciare preziose energie durante il tragitto, a volte reso ancora più duro dai pesanti attrezzi del mestiere.
Con la seconda guerra mondiale, la bicicletta divenne tra i pochissimi mezzi di trasporto sopravvissuti alla violenza dei bombardamenti: accompagnava la gente nella fuga dalle città, aiutava a trasportare qualche misero bottino alimentare, scivolava tra le ombre del coprifuoco, combatteva al fianco delle staffette partigiane. Poi, una volta avviato il processo di ricostruzione, il boom economico influenzò i gusti della gente nei confronti della bicicletta che, in breve tempo, fu rimpiazzata dai mezzi a motore. In Italia c’era già chi scriveva libri di addio alla bicicletta quando poi, quasi all’improvviso, arrivò la famosa domenica 3 dicembre del 1973. Era scoppiata “l’austerità” e così, quasi come un rito che tanto assomiglia a quello proposto tutt’oggi dagli amministratori delle città italiane, le biciclette tornarono a fare capolino dalle cantine e dai solai In Italia nascono numerose fabbriche. I nomi più famosi sono quelli dell’Olympia, Velo, Maino, Dei, Frera, Ligie, Taurus, Legano, Atala, Torpado, Ganna, Fiat 1933 L’invenzione del cambio di velocita’ L’ultima importante innovazione tecnica è l’invenzione del cambio di velocità che fu fatto da un altro italiano, Tullio Campagnolo Prima dell’invenzione del cambio si correva con un pignone unico e due rapporti .Per passare da un rapporto all’altro si doveva scendere di bici, staccare la ruota posteriore e cambiare pignone. Successivamente lo spostamento della catena da un pignone all’altro era fatto grazie ad un comando a bacchetta, che obbligava in ogni caso il corridore a dare un colpo di pedale all’indietro al momento del passaggio da un rapporto all’altro.
Non essendo un’invenzione ingegneristica, molto spesso si inceppava e il ciclista era lo stesso costretto a scendere di bici. Il cambio negli anni a seguire si è sempre più evoluto e sempre più perfezionato fino a diventare oggi un vero meccanismo di estrema precisione. Nel frattempo il peso della bicicletta scende sotto i 10 kg grazie all’impiego di materiali come l’alluminio e sono applicati i tubolari, la doppia moltiplica, le prime selle di plastica. La bicicletta e l’Esercito 1896 La bicicletta ha svolto un ruolo non marginale anche nella storia degli eserciti e delle guerre di tutto il mondo fin dal tempo dei velocipedi. . Il primo esempio dell’uso delle due ruote a fini militari risale al 1851 quando, in Nuova Zelanda, le truppe inglesi andarono all’assalto del nemico in sella a velocipedi. Ufficialmente, però, il primato nell’adozione delle due ruote spetta all’esercito italiano, che fornì nel 1875 ad ogni reggimento di fanteria quattro velocipedi a ruote basse destinati ai portaordini ed agli esploratori. Rispetto alle draisine usate dagli inglesi, si trattava di mezzi più simili a quelli moderni, ulteriore conferma del fatto che i soldati italiani furono effettivamente i primi a servirsi di un regolare veicolo a due ruote. Per restare in Italia il primo corpo ad usare sistematicamente le due ruote sono i Reali Carabinieri che nel 1896 si servono di una bicicletta costruita appositamente per loro (modello Costa), modello pieghevole e munito di cinghie per poterla portare in spalla. All’inizio del secolo viene costituto uno speciale corpo di fanti ciclisti per la Sardegna dotati di biciclette sempre pieghevoli, ma pesanti solo 14 chilogrammi. Nel 1912 Edoardo Bianchi vinse il concorso bandito dall’Esercito per dotare di un nuovo modello il corpo dei Bersaglieri. Nasce la “Bicicletta militare tipo brevettato Bianchi” senza freni, con le gomme piene, ma pieghevoe, cosi’ da poterla caricare in spalla, verniciata in grigio verde, che fu il simbolo dei Bersaglieri, truppe veloci.
Ma la realta’ che porto’ la due ruote alla ribalta dell’attenzione nazionale fu la guerra ’15-’18 durante la quale furono impiegate non solo biciclette ma anche tricicli adibiti al trasporto di armi leggere come mitragliette e cannnoncini. Unita’ ciclotrasportate furono utilizzate come supporto alla cavalleria: i soldati in bicicletta ricoprivano le mansioni di trasmettere gli ordini, di compiere perlustrazioni, di installare le reti di collegamento telefonico, di effettuare manovre tattiche e operazioni di sabotaggio e di occuparsi del pronto soccorso ai feriti. Cosi’ inserita nel mondo militare vi rimase fino alla seconda guerra mondiale (fu importante per la marcia su Roma)dove pero’ lentamente fu sostituita dalla moto e assunse la funzione di mezzo di trasporto all’interno delle caserme. . Le prime competizioni di Draisine e Bicicli in legno 1818 Le prime gare nascono come sfide contro l’uomo e contro il tempo, a meta’ fra lo sforzo atletico e l’ acrobazia. La prima corsa di Draisine di cui si ha notizia si svolse in Francia nel 1818 nel Jarden de Luxembourg seguita pochi mesi dopo da una gara su un percorso di 10 Km a Monaco e l‘anno dopo a Londra da una sfida fra una draisina e un cavaliere a cavallo. Queste gare furono organizzate dallo stesso inventore, barone Drais, allo scopo di propagandare il nuovo mezzo di locomozione, ma avendo dei costi notevoli di realizzazione non ebbero seguito. Dobbiamo arrivare al 1865 per trovare l’inizio vero e proprio delle corse velocipedistiche in Francia. Le gare dei bicicli in legno si svol gevano oltre che sulle piste in terra degli ippodromi, anche nelle piazze, improvvisate a pista, o lungo i rettilinei dei viali. . I partecipanti dovevano indossare, per regolamento, giubbotto e berretto da fantino e stivali da cavallerizzo, quasi per uniformarsi alle corse dei cavalli. Il primo novembre 1868 si svolse all’Hippodrome du Parc Bordelais di Bordeaux la prima corsa riservata alle signore. L’anno dopo viene organizzata la prima corsa su strada su lunga distanza: la Parigi-Rouen, corsa durissima di 126 chilometri, che mette i palio 1000 franchi per il vincitore. Si iscrivono 323 corridori tra cui numerose donne. ll primo arrivato, James Moore, taglia il traguardo dopo 10 ore e 34 minuti mentre l’unica donna che termina la gara impiega ben 23 ore e 20 minuti. Nello stesso anno iniziano le gare di velocipedi anche in Inghilterra e in Belgio.
In Italia la prima gara si svolse a Padova in due giornate, il 25 e 26 luglio 1869, in piazza Vittorio Emanuele II (attuale Prato della Valle) sulla distanza di due chilometri, al termine delle corse ippiche.Il primo premio, un orologio d’oro, se lo aggiudica il primo giorno Antonio Pozzo di Padova, il giorno dopo Gaetano Testi sempre di Padova. A queste competizioni padovane si era iscritto anche un turista francese, Paolo Selz, che visitava il Veneto in velocipede, ma non vi fu ammesso essendo riservate ai soli residenti. Ma il francese si rifece partecipando e vincendo una gara ad Udine il 22 agosto. Nel 1870 venne organizzata dal “Veloce Club Fiorentino” appena costituito, la prima corsa internazionale su strada sul percorso Firenze-Pistoia di 33 chilometri che viene vinta da un americano mentre il primo italiano conquista il quarto posto. Nello stesso anno a Milano nasce il Veloce Club che organizza la prima vera gara solo l’anno dopo . E’ il giro dei Bastioni milanesi di 11 chilometri vinto da Giovanni Pasta che diventera’ uno dei primi corridori di livello internazionale. I Club italiani e le prime gare agonistiche Nel 1870 venne organizzata dal “Veloce Club Fiorentino” appena costituito, la prima corsa internazionale su strada sul percorso Firenze-Pistoia di 33 chilometri che viene vinta da un americano mentre il primo italiano conquista il quarto posto. Ma non ripetuta perde il primato di prima corsa in linea a favore della Milano-Torino inaugurata nel 1876. Sempre nel 1870 a Milano nasce il Veloce Club che organizza l’anno dopo il giro dei Bastioni milanesi di 11 chilometri vinto da Giovanni Pasta che diventera’ uno dei primi corridori di livello internazionale Le prime produzioni in serie dei bicicli che diventano piu’ veloci e meno costosi fanno aumentare gli amanti della bicicletta anche in Italia e danno nuovo impulso all’attivita’ agonistica Ci pensa a riunirli in una grande società, Pavia, che fonda nel 1875, l’ Unione Velocipedistica Italiana. Nel 1881 sia i Veloclub cittadini sia i soci, sono ormai tanti, abbastanza per organizzare il primo Campionato Nazionale su Strada.
Mentre in Francia nascono due classiche : nel 1896 la Parigi-Rubaix e la Parigi Tours . In Italia arriviamo al 1900, quando gli atleti volendo partecipare alle grandi famose gare che si svolgono all’estero, costituiscono l’Unione Ciclistica Internazionale. Infatti, in Francia dalle gare in linea, si sta mettendo in cantiere una grande corsa a tappe: Il TOUR de FRANCE. Viene disputato per la prima volta nel 1903 su una distanza di 2.426 chilometri divisi in sei tappe e a vincerlo è proprio un italiano, di venti anni, MAURIZIO GARIN. Un Trionfo! In pochi anni questo successo italiano fa diffondere velocemente la bicicletta. La prima cosa su lunga distanza in Italia viene organizzata nel 1892 dal giornale “La bicicletta” con partenza da Milano e arrivo a Torino dopo 530 chilometri. Vince Enrico Sauli in 26 ore e 25 minuti. All’inizio del secolo si varano alcune classiche come il Giro di Lombardia nel 1905, e la Milano Sanremo nel 1907, ed infine il GIRO d’ITALIA nel 1909, organizzato dalla Gazzetta dello Sport, vinto da Luigi Ganna su una distanza totale di 2.448 chilometri. Nel 1921 venne organizzato il primo Campionato Mondiale su Strada a Copenaghen, ma era riservato solo ai dilettanti. I professionisti dovettero attendere il 1927. Fu disputato a Adenau, in Germania. Un trionfo memorabile per il ciclismo con gli italiani ai primi 4 posti: Binda, Girardengo, Piemontesi, Belloni. LA DONNA E LA BICICLETTA Tutta la storia dello sviluppo della bicicletta si intreccia con le lotte e le conquiste femminili, ma e’ soprattutto a partire da metà dell’Ottocento che le donne presero la bicicletta a simbolo della loro futura emancipazione . Se per gli uomini essere in grado di dominare un biciclo dalle impressionanti dimensioni era segno di prestanza fisica e virilità, nell’austera Inghilterra vittoriana si riteneva che i bicicli non si addicessero alle donne.
La posizione, il movimento delle vesti nel montare in sella, le facili e acrobatiche cadute, non erano compatibili con l’etichetta e il buon costume. I costruttori proposero fantasiose alternative per le signore: dai bicicli con entrambi i pedali da uno stesso lato, ai tricicli, ai “dicicli” dalle grandi ruote parallele. Quando, con l’invenzione della trasmissione a catena, le dimensioni delle ruote cominciarono finalmente a ridursi, rimase il problema dell’abbigliamento. Alcuni stilisti lanciarono il cosiddetto “abito razionale” (rational dress) per cicliste: pantaloni lunghi, larghi fino al ginocchio e stretti più in basso, opportunamente coperti da un soprabito sufficientemente corto da non ostacolare la pedalata, e abbastanza lungo da non scoprire le gambe. Fu così che alcune giovani signore ebbero l’ardire di inforcare le loro biciclette con tanto di calzoni da uomo, sicuramente più comodi dei pomposi vestiti femminili dell’epoca. I benpensanti non apprezzarono, chiamando in causa nientemeno che la salvaguardia della morale pubblica. Alcuni organi di stampa inglesi risposero prendendo una posizione favorevole all’uso di calzoncini, o di calzoni purché sotto una gonna o un soprabito. Raccomandavano, inoltre, di scegliere il colore grigio, così che la ciclista risultasse il meno appariscente possibile. Un passo avanti verso la conquista della completa “emancipazione ciclistica” della donna venne, più avanti, dalle corse di ciclismo femminile e dalla progettazione di biciclette studiate sulle forme del gentil sesso. Lo sviluppo della bicicletta All’inizio del secolo la bicicletta ha ormai invaso tutta l’Europa e buona parte anche dell’America. Mentre le prime automobili fanno i primi passi, la regina incontrastata delle strade è la bicicletta.
Da oggetto di lusso si trasforma in un articolo d’uso corrente destinato al consumatore medio. Lo sviluppo del settore nel corso del secolo fu caratterizzato dal consolidamento della produzione industriale e dal perfezionamento delle soluzioni tecniche e progettuali emerse alla fine dell’Ottocento. In Italia nascono numerose fabbriche e la prosperita’ di questo nuovo mercato contribui’ ad arricchire anche i mercati paralleli dell’acciaio, del ferro, della gomma e del cuoio. Le marche più famose sono quelli dell’Olympia, Bianchi, Velo, Maino, Dei, Frera, Ligie, Taurus, Legnano, Atala, Torpado, Ganna, Fiat. Una bicicletta costava l’equivalente di 10 centesimi di euro (le vecchie duecento lire) e si cantava “ma dove vai bellezza in bicicletta”. Le due ruote rappresentavano un simbolo di libertà e di affrancamento sociale, ma restavano soprattutto un valido strumento di aggregazione e di socialità. La bicicletta consentiva all’operaio di recarsi al lavoro nelle fabbriche lontane anche dieci o quindici chilometri da casa, ed al contadino di raggiungere i campi senza dover bruciare preziose energie durante il tragitto trasportando con piu’ facilita’ gli attrezzi del mestiere. Con la seconda guerra mondiale, la bicicletta divenne tra i pochissimi mezzi di trasporto sopravvissuti alla violenza dei bombardamenti: accompagnava la gente nella fuga dalle città, aiutava a trasportare qualche misero bottino alimentare, scivolava tra le ombre del coprifuoco, combatteva al fianco delle staffette partigiane. Poi, una volta avviato il processo di ricostruzione, il boom economico influenzò i gusti della gente nei confronti della bicicletta che, in breve tempo, fu rimpiazzata dai mezzi a motore.
In Italia c’era già chi scriveva libri di addio alla bicicletta quando poi, quasi all’improvviso, arrivarono le famose domeniche di “austerity” dell’inverno del 1973 a rilanciare la due ruote Piano piano, quasi come un rito, che tanto assomiglia a quello proposto oggi dagli amministratori delle città italiane, le biciclette tornarono a fare capolino dalle cantine e dai garage. E quelle domeniche senza auto lasciarono il segno e fecero riflettere tanti italiani. Ormai si cominciavano a sentire gli effetti deleteri dello sviluppo indiscriminato dei veicoli a motore: l’aria irrespirabile, le citta’ assediate, i problemi di traffico e di parcheggio La bicicletta di colpo fa riscoprire una dimensione piu’ pulita e meno convulsa della vita quotidiana, fa ripercorrere nuovi percorsi in mezzo alla natura, riporta le citta’ a misura d’uomo. E proprio per affrontare situazioni al limite delle possibilita’d’uso di una normale bici da strada, come percorsi accidentati e impervi, per un contatto piu’ stretto con la natura, alla fine degli anni ottanta, viene presentata sul mercato la mountain bike, nata negli Stati Uniti, con il telaio robusto e e le ruote larghe e incise per far presa sui terreni difficili.. E con lo sviluppo di nuove tecnologie di costruzione e di nuovi materiali arriviamo ai modelli d’avanguardia d’oggi soprattutto nelle biciclette da corsa che prendono in prestito dall’aeronautica e dall’astronautica materiali come il titanio, l’ergal, il dural, i compositi e le fibre di carbonio. Si arriva cosi’ alla costruzione di modelli dotati cdi ruote a struttura lenticolare e a razze, di manubri a impugnatura centrale , di pneumatici sottilissimi ad alta pressione, e di telai sperimentati nelle gallerie del vento, con forme aereodinamiche e studiate in base ai parametri biomeccanici